Luigi Martinelli – dall’Albania alla Grecia

Estratto dal Diario di mio padre Luigi Martinelli

Mio padre nacque a Lazise, sponda veronese del lago di Garda il 18 aprile 1915 .
Per vari motivi non avrebbe dovuto fare il soldato, ma visti i venti di guerra, fu chiamato alle armi    in fanteria il 3 aprile 1939 e destinato alla caserma Luigi Cadorna di Bolzano:
Dopo un periodo sulle montagne dell’Alto Adige, fu poi mandato in Piemonte e dai piedi del Moncenisio, la sua Compagnia fu una delle prime ad entrare in guerra, quando il 10 giugno del 1940 il duce dichiarò guerra alla Francia.
Il 20 giugno entrano in azione allo scoperto, mentre i Francesi erano trincerati dietro “forti e fortini inespugnabili”. La nebbia fece in modo che la sua Compagnia non venisse annientata, anche se i caduti delle altre furono moltissimi. Poi finalmente la Francia, stretta d’assedio dai tedeschi, dichiarò l’Armistizio il giorno 24 giugno 1940. Se la guerra fosse durata qualche giorno in più, il freddo, la fame e la fatica, se non le pallottole nemiche, avrebbero annientato un esercito di soldati mal equipaggiati e stremati. Perfino i muli cadevano  per la fame e la fatica, oltre che per le pallottole, che piovevano su un esercito completamente allo scoperto.  Immagine (2)
Dopo giorni di manovre e tattiche di guerra, il 7 agosto arriva l’ordine di partire per portarsi ai confini con la Svizzera, perché sembrava che Italia e Germania volessero invadere lo Stato neutrale.
Dopo 3 mesi di tattiche di guerra, manovre, esercitazioni e lunghe marce di resistenza, i soldati  sempre morti di fame e di sonno, l’Italia finalmente desiste dalla sciagurata idea di invadere la Svizzera e ritira le truppe dal confine.
Partenza per l’Albania
Dopo un permesso di 48 ore per riabbracciare la famiglia con le lacrime agli occhi e il cuore gonfio,
il 24 dicembre 1940, caricato su vagoni bestiame, dopo 2 giorni e 2 notti, arriva a Bari dove il giorno successivo, viene imbarcato su una piccola nave con altri 500 soldati, che solo per molta fortuna  non caddero sotto le bombe dell’aviazione inglese, o perirono nella traversata di ben 25 ore col mare in burrasca e sempre in piedi come sardine a svuotare lo stomaco uno sull’altro.

In Albania da Durazzo comincia la dura salita verso il fronte.
Dal diario:
“Arrivati a Tepeleni, ci attendammo in una vallata piena di fango, poiché continuava a piovere, in attesa che arrivassero i muli che ci dovevano portare i cannoni in linea di fuoco.
Intanto cominciano ad armarci fino ai denti, nell’eventualità di qualche attacco nemico.
Ci danno un po’ di viveri di riserva: 5 scatolette di carne e 5 gallette.
Il giorno 8 gennaio 1941 di sera arrivano i muli e dopo aver someggiato i cannoni sui muli, pesante zaino in spalla, avanti per uno su una ripida mulattiera, comincia l’ascensione di un vero calvario.
Era una notte fredda e piovosa, lo zaino era piombo e le cinghie recidevano la pelle sotto la divisa, i panni inzuppati, ogni passo una fatica immensa, ma si saliva, anche pensando che molti di noi non sarebbero più scesi.
A mano a mano che si saliva, gli scoppi delle granate si facevano sempre più vicini mentre l’animo si riempiva sempre più di tristezza. Ma quello che più demoralizzava, erano i feriti che scendevano per la stessa mulattiera: molti gemevano per il male, altri trasportati sulle portantine, molti dei quali
non facevano in tempo ad arrivare al fondo valle, poiché la discesa durava dalle 10 alle 12 ore e spesso il povero ferito moriva dissanguato prima di arrivare all’ospedale da campo.
Altri feriti meno gravi scendevano caricati sui muli, altri zoppicando, ed erano quelli che mi colpivano di più, perché era una pena vederli scalzi nell’acqua e nel fango con i piedi gonfi come palloni per il congelamento. Insomma era una colonna di poveri disgraziati che saliva e una che scendeva, ma si vedeva che erano più contenti loro in quelle disperate condizioni, che noi a salire sani ad occupare il loro posto. Chiedevamo loro com’era la situazione lassù e loro rispondevano, con sorrisi di compassione, che ci potevamo ritenere fortunati se fossimo scesi nelle loro condizioni.
Dopo 10 ore di questa faticosa ascesa notturna, arriva l’ordine di fermarsi per riprendere la marcia la sera seguente, ma poco dopo esserci riparati alla meglio dalla pioggia coi teli da tenda, il nostro breve riposo fu interrotto dagli scoppi improvvisi di bombe a mano e mitragliatrici. I Greci avevano sferrato un attacco ad una compagnia di Camicie nere, che subito dopo vedemmo scendere a precipizio in ritirata. Noi eravamo solo a qualche centinaio di metri e fra noi fu il panico, perché
ci scaricarono addosso raffiche di mitragliatrici e di fucili e noi allo scoperto non potevamo far altro che rimanere per tutto il giorno immobili dietro qualche spuntone di roccia, che in questo caso fu la nostra salvezza. La sera, in completo silenzio, si riparte per continuare la salita mentre il freddo diventava sempre più insopportabile e la pioggia diventava neve, nella quale si sprofondava e andare avanti diventava una fatica immane, mentre le cannonate piovevano sempre più vicine sul
sentiero per il quale dovevamo passare. Alle 4 di mattina arriviamo finalmente in linea più morti che vivi, ma riposarsi è impossibile perché se ti addormenti rischi il congelamento.          …
Dopo esserci accampati fuori dal tiro nemico, ci vollero tre notti consecutive di lavoro per preparare le postazioni per i cannoni. La prima postazione fu la più sfortunata, perché fu proprio in quella  che trovò la morte un uomo molto buono e generoso: il nostro Comandante di Plotone, Sottotenente Reggiani Bruno.
Era un grande uomo in tutti i sensi e cadde nel tentativo eroico di abbattere una postazione di mitragliatrici  nemiche che sparavano continuamente su un nostro sentiero obbligato e scoperto, sul quale molti dei nostri erano già stati feriti.    …
Tutto diventava insopportabile, il freddo, la fame e perfino la sete, il nemico che attaccava anche due volte al giorno, ma la nostra tenacia, il coraggio o la disperazione, non permetteva loro di guadagnare neanche un metro, anche se il prezzo erano i tanti soldati che cadevano sotto il fuoco incessante.  … C’erano i turni di sentinella e allora la neve ti inzuppava da capo a piedi e così dovevi restare per giorni, perché non c’era modo di asciugarsi o di cambiarsi, per non parlare di quegli animaletti insidiosi (ce n’erano di rossi bianchi neri), che appena cercavi di assopirti cominciavano a passeggiare su tutto il corpo e a succhiarti il sangue.
      “Come si può resistere in questo modo, come può un uomo sopportare a lungo tutto questo?”
Erano le domande che spesso ci facevamo, aggiungendo: “qua se non moriamo di piombo, moriremo di fame di freddo e di ogni altra sorta di sacrificio”.
Quante volte ci capitava di guardarci negli occhi pieni di lacrime senza riuscire a dirci una parola!
 Perfino i muli erano morti di fame, di freddo o sotto i bombardamenti, o precipitati nei burroni e
dei più di trecento tra muli e cavalli sbarcati in Albania, ora ne restavano solamente una cinquantina.
Fu così che un terzo degli uomini di ogni Compagnia dovettero sostituire le bestie da soma per andare su e giù come muli e sotto il fuoco nemico per gli approvvigionamenti. Ed io fui tra questi. …A marzo eravamo ancora in prima linea e il sole faceva sciogliere la neve da dove piano piano spuntavano i cadaveri  intatti dei caduti che stavano là sotto anche da 4 mesi.  …
La sera del 12 aprile 1941 arriva finalmente il cambio e il morale comincia a sollevarsi, ma per poco, perché la sera del Venerdì Santo ricominciamo il nostro nuovo calvario, perché arriva l’ordine
di partire per sferrare l’offensiva finale.
Ancora pioggia, ancora neve su per quelle montagne! Ancora prima linea e cannoni. Dopo il secondo attacco riusciamo a sfondare la linea nemica su quasi tutto il fronte e fu così che la nostra avanzata si concluse con la nostra vittoria finale: 23 Aprile 1941 la Grecia chiede l’armistizio.
Ma a  che prezzo tutto questo!  …
Rimaniamo in Albania per qualche tempo ancora, ma con la segreta speranza che la nostra Divisione venga rimpatriata. Così non sarà, anzi arriva l’ordine di partire per la Grecia: 650 km a piedi! ( Per fortuna l’ultima parte si farà sui camion)  …
Il 7 Giugno si parte! Anche stavolta si cammina di notte, ma solo perché è il caldo adesso ad essere insopportabile e la carenza di acqua.  …
In Grecia si continua con marce, manovre, continue esercitazioni, tattiche di guerra fuori dagli accampamenti.
Intanto arriva l’inverno anche ad Atene dove stiamo presidiando.
Noi soldati riuscivamo appena a sopravvivere con le razioni sempre più scarse che ci davano.
Ma quei poveri abitanti di Atene non avevano proprio niente e vecchi e bambini morivano di fame.
Noi le vedevamo tutti i giorni quelle donne coi bambini affamati che ci chiedevano un pezzo di pane e a noi venivano le lacrime agli occhi a non poter fare niente visto che anche noi non ce la passavamo meglio. Si fa fatica anche a raccontarlo che la mattina il camion della nettezza urbana faceva il giro per le strade di Atene per raccogliere i morti di fame ma anche di freddo, perché neanche la legna per scaldarsi avevano. Perché oltre alla guerra ci si era messo anche il freddo e la neve, che da 10 anni non cadeva sulla città…
Arriviamo a Pasqua 1942, quando stavolta inizia il calvario della mia malattia.
Il lunedì di Immagine (11)Pasqua arriva l’ordine di fare una marcia celere di resistenza, che più che una marcia era una corsa che sfiancava dei poveri soldati già molto provati. Il giorno successivo altra marcia sempre più lunga e veloce. Chi restava indietro, dicevano, rischiava di non andare a casa.
Poi addirittura altra marcia, ma questa trainando a mano i cannoni…che ad un certo punto della montagna per farli passare dovemmo caricare sulle spalle oltre allo zaino e al fucile. Ci dicevamo che volevano farci morire prima di andare a casa.  …… Io cominciai ad avvertire forti dolori al cuore e non riuscivo più a mangiare, stavo sempre peggio, ma all’inizio non mi credevano, fino a quando per fortuna tornai a raggiungere il secondo Battaglione del mio Reggimento e qui  l’ufficiale medico si accorse subito del mio stato di salute e mi mandò all’ospedale da campo 259 di Atene. Il 24 Maggio 1942 fu fatta la diagnosi: attacchi cardiaci e deperimento organico, ma dopo più di un mese  non avevo ancora nessun miglioramento e così il 27 Giugno fui mandato in osservazione all’ospedale 536 dove in aggiunta mi trovarono la disfunzione del lobo destro della tiroide.
In questo stato di prostrazione totale, sia fisica che morale, avevo finalmente in mano il foglio di viaggio e sarei dovuto partire con la prima tradotta, se un ufficiale troppo attento alla mia divisa e poco alla mia povera persona, non mi avesse messo in punizione e fatto perdere la tradotta ritardando così il mio rientro di 15 giorni. L’umiliazione per l’offesa subita aggiunta al mio stato di salute non fecero che gettarmi nello sconforto più totale. Ero partito sano e robusto e ritornavo triste e debole, ammalato e demoralizzato.
Finalmente partii e dopo un lungo viaggio di 7 giorni, in tradotta attraverso Bulgaria, Croazia e Serbia, col rischio costante di essere attaccati dai partigiani di Tito, arrivai a Verona e da lì con la corriera  a casa a Lazise.”

Papà scrisse un dettagliato diario della sua vita dalla nascita al suo rimpatrio dalla guerra, con meticolosa descrizione di luoghi, persone e tristi vicende di guerra.
Lo scrisse mentre si trovava a Battaglia Terme dove era stato ricoverato al suo rientro dalla Grecia
e dove cercava di riprendersi dalle numerose patologie anche  quelle polmonari contratte su quelle tristi montagne.
Fece in modo che noi  trovassimo il diario solo dopo la sua morte, avvenuta il 23 giugno 2009.
Nella sua lunga vita non parlò molto di quel triste periodo, ma io credo che le sue ferite nascoste siano state le più difficili da sanare.

Paola Martinelli